S'impara molto più dalla storia che dalla sociologia: è la distanza che si prende di fronte alla pressione culturale che consente la maggiore consapevolezza e presa di coscienza di una situazione problematica.
La differenza tra la comunità e il gruppo: mentre nella prima si vivono relazioni
inclusive (l'apertura verso il diverso si compie senza paura), il gruppo tende a chiudersi, ossia a divenire una specie di club, quando non è capace di confronto e
di incontro. Fare comunità è il "di più" rispetto al fare gruppo: aprire piuttosto che chiudere al diverso; uscire verso l'altro per trovare una convergenza tra il suo sogno
ed il mio sogno.
Gruppi chiusi formano persone chiuse, con pregiudizi verso il diverso. Comunità aperte sanno valorizzare la mediazione culturale, non per favorire edonismo e narcisismo, ma per aiutare la crescita dell'altro, con la stessa passione con la quale si persegue la crescita di sé.
In una realtà moderna che ha fatto del dubbio, più che della certezza, un metodo di ricerca e di stile di vita, problematizzare non è soltanto esercizio dell'io, è ricerca della
relazione con l'altro, è esercizio di dialogo (esercizio impegnativo, molto più del colloquio, che può anche ridursi a monologo tra due io).
Si potrebbe dire, con papa Francesco, che l'esercizio della misericordia richiede molta più fiducia e comprensione dell'esercizio della giustizia: la "chiesa catara" pretende di fare una "comunità di perfetti" escludendo i peccatori; la chiesa cattolica include tutti, peccatori e giusti, al suo interno, e chiede agli uni e agli altri di misurarsi sull'amore di
Cristo. Il Vangelo di Gesù Cristo è l' unità di misura della comunità. E' l'esercizio del Vangelo a creare la comunità aperta. il don
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