martedì 1 ottobre 2013

verso la città

cronaca della serata di sabato 28 settembre
Il Sindaco è venuto nella chiesa dell'Immacolata, per l'incontro, alle ore 20,05. Non c'era ancora nessuno, ed è andato via alle ore 20,06, dicendo che l'evento andava pubblicizzato meglio e posto in un giorno più consono alle famiglie. Avremmo dovuto dialogare su due testi del cardinale C.M. Martini verso la città. Tra le ore 20,10 e le 20,30 sono venute almeno dieci persone, le quali sono andate via quasi subito, forse per aver trovato l'aula quasi deserta. Soltanto due persone si sono fermate a conversare, ed io sono stato contento di fare loro accoglienza e di rispondere alle loro domande. In fondo il successo di un evento non si misura dalla massa di gente intervenuta. Le relazioni autentiche sono sempre personali, mai di massa. E sono le relazioni autentiche a vincere le varie forme di peste che ammorbano la città e delle quali parlava il cardinale Martini in un testo del 1984: la peste della violenza (anche verbale), la peste della solitudine, la peste della corruzione. Nel 1985, Italo Calvino, nelle "Lezioni americane" scriveva di "un'altra pestilenza del linguaggio e della vita" che "si manifesta come perdita di forza conoscitiva". E anni dopo, Alberto Asor Rosa, in un'intervista sul "Grande silenzio degli intellettuali", diceva che "c'è un'analfabetismo di ritorno, creato dalla cultura di massa"; e puntava il dito contro "l'attuale immaginario collettivo che predilige modelli in serie e ripetitivi. Vengono a mancare creatività e spirito critico". 
Nell'altro testo di Martini sul quale avremmo dovuto dialogare col Sindaco, "L'uomo in frammenti", un intervento ad una tavola rotonda organizzata da Confindustria di Milano, l'accento veniva posto sul fatto fondamentale della relazione autentica alla quale i giovani non sono disposti a rinunciare neppure quando fossero tutti presi dalle macchine tecnologiche. Qualità dunque, più che quantità : questa è la sfida che abbiamo dinanzi, e su questa ci giochiamo il presente ed il futuro!  il don

3 commenti:

  1. La relazione autentica a cui i giovani non sono disposti a rinunciare

    Nota: dovendo limitare il numero dei caratteri, ho diviso il mio intervento in due parti

    1ª parte
    Nei giovani, così come in chiunque, esiste un bisogno insopprimibile e inalienabile di relazione autentica. È un bisogno connaturale all’essere e funzionale all’esistere. È grazie alla relazione se ciascuno di noi ha potuto, nelle varie fasi della propria crescita, costruire il proprio sé e quindi divenire soggetto unico distinguibile all’interno della comunità, e passare cioè da individuo a persona.
    Bisogna vedere però quanto di quel bisogno la persona di questa nostra epoca e di questa nostra società (occidentale, globale, ipertecnologica) è disposta a non farsi scippare. Non ne faccio una questione generazionale, la relazione autentica è un bisogno anche in un ottuagenario. Tutt’al più posso trovare delle sfumature di atteggiamento, ma non è questo il problema.
    Mi domando, e in parte conosco, quali possono essere i fattori che distolgono la persona dalle relazioni autentiche. Mi domando qual è la loro potenza. E, conoscendone la perfidia, mi domando quali azioni di contrasto siano necessarie per vincerli. Mi domando se esiste un punto di non ritorno oltrepassato il quale, la persona regredisce immutabilmente allo stadio di individuo. Se esiste cioè in ogni essere una scintilla insopprimibile e inestinguibile di umanità che, anche nelle peggiori condizioni di omologazione e appiattimento capaci di ridurre l’uomo ad un tizzone fumigante, possa riacquistare vigore e riprendere a bruciare. Me lo domando per capire se posso ancora sperare.
    Lo sappiamo. La relazione autentica comporta dei rischi, primo fra tutti quello di esporre se stessi al giudizio degli altri in una forma di nudità intellettuale spudorata e disarmante. È qui infatti che si colloca la sfumatura di atteggiamento tra giovane e meno giovane. Il meno giovane ha avuto il modo e il tempo di costruirsi le maschere dietro cui difendersi; il giovane invece deve ancora imparare a farlo e quindi incassa i colpi. Ma i colpi attuali sono differenti da quelli dei loro padri? Sono colpi letali? Spingono più facilmente alla fuga, alla rinuncia, all’omologazione più di quanto non lo abbiano fatto in passato?

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  2. La relazione autentica a cui i giovani non sono disposti a rinunciare

    2ª parte di 3
    Permettetemi queste considerazioni:
    Fino a quaranta-cinquanta anni fa, un ragazzo/a entrava nel mondo degli adulti intorno ai venti anni. I riti di iniziazione erano il servizio militare e il bordello per i maschi; il maritaggio per le femmine. Prima di queste fasi di passaggio vi era il nulla. Ragazzi e ragazze non avevano voce in capitolo nelle faccende domestiche o sociali, erano semplici esecutori/esecutrici di mansioni prestabilite all’interno di ruoli ben definiti. Essi dovevano semplicemente osservare senza discutere il mondo che li attendeva ed apprenderne le modalità di funzionamento per essere pronti al momento dell’ingresso.
    Da trenta anni a questa parte, l’età di ingresso nel mondo degli adulti è diventata contraddittoria e paradossale. Per certi aspetti si è elevata. Spesso si resta in casa dei genitori fino a trenta-trentacinque anni. Per altri aspetti si è abbassata. Ma sono anche cambiati i riti di iniziazione: il primo spinello, la prima sbronza, il primo rapporto sessuale. Riti che avvengono intorno ai dodici anni. Fase dello sviluppo in cui ci si apre all’altro attraverso l’esperienza delle amicizie. E prima ancora di passare nel mondo degli adulti, per i giovani è cambiata la loro collocazione nel mondo dell’infanzia. L’uso di strumenti relazionali ad alta tecnologia (i social network) li sbatte nel mondo virtuale simil-reale privi di una esperienza conoscitiva vera dello stesso mondo. Questo li rende al contempo estremamente fragili ed estremamente aggressivi. Il grado di conoscenza degli strumenti li illude di conoscenza del mondo e della vita. Tuttavia non si può negare che lo scontro anticipato con la sessualità o con l’angoscia esistenziale in qualche modo non li formi a volte più di quanto non lo siano alcuni adulti. È con questo carico di contraddizioni che essi reclamano un diritto di affermazione e di potere, quello che i sociologi chiamano “democrazia emergente” che esplode in forme o di intolleranza o di chiusura e isolamento. Il bisogno di relazione autentica va a farsi benedire. Esso viene ricacciato nei reconditi dell’anima e salta fuori di tanto in tanto in forme consumistiche stereotipate di cui facebook è espressione, in particolare nell’uso sconsiderato di aforismi copia-incolla. Belle frasi che suonano bene, che richiamano a generici valori come l’amore per la natura, rispetto per i transgender, rispetto dei diritti civili, amore per l’arte, interesse per il new age, ecc. ecc. Surrogati di valori dove basta cliccare “mi piace” per sentirsi parte di un tutto, in una relazione che ormai di autentico non ha più niente, ma per il semplice fatto che riguarda valori elevati, dà l’illusione di autenticità.
    Bene. Quale sarà la forza che potrà smuovere le persone ad alzare il culo dalla sedia, lasciare il PC, uscire per strada, incontrare i propri simili in carne ed ossa, guardarsi negli occhi senza gli occhiali della finzione o della falsità per comunicare le proprie paure, le proprie gioie, le proprie scoperte, le proprie esperienze?

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  3. La relazione autentica a cui i giovani non sono disposti a rinunciare

    3ª parte

    Il primo pensiero va alla famiglia. Essa è la prima rete sociale di cui facciamo esperienza. È la rete sociale in cui apprendiamo la relazione. Il luogo dove la prima volta incontriamo l’altro. Se la società, i vari gruppi sociali ( le parrocchie, i dopolavoro, i partiti, i sindacati, le associazioni varie ) non sono in grado di fornire alle persone le risposte relative al raggiungimento degli obiettivi di felicità, è perché all’interno di questi gruppi sociali, di queste reti allargate, trasferiamo tutte le incongruenze, le distorsioni, le contraddizioni che abbiamo appreso nella famiglia. Quello è il modello di cui disponiamo. Non ne abbiamo altri. Come è pure vero che trasferiamo quello che c’è di positivo. Ovviamente questo processo di trasferimento non avviene sic et simpliciter e in forma cosciente. Ciò di cui disponiamo è il valore dell’altro diverso da me e il valore di me per l’altro. Dati che abbiamo in parte appreso, in parte elaborato e archiviati nel nostro mondo interiore. Sulla base di queste relazioni primarie costruiamo le relazioni allargate.
    Dunque non è la famiglia oggetto e preda dei mali sociali che imperversano, semmai è il contrario. È la famiglia la scaturigine di tutto il bene e di tutto il male sociale.
    Il problema non è più nel rapporto qualità/quantità. Questa dualità l’abbiamo già risolta. Abbiamo capito che è una questione di qualità. Il problema è: quale qualità? Quale modello di famiglia?
    Ma questo è argomento di un altro dibattito.
    Giuseppe Summa
    Martedì 1 ottobre 2013

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